Uscire dalla logica dello schieramento sì, ma con coerenza

Che sia in atto una gigantesca azione di divisione è sotto gli occhi di tutti, ma, osservando ciò che sta accadendo, quello che mi sembra meno visibile è come sottrarsi a questa spinta a schierarsi su uno dei due fronti opposti e farlo in maniera coerente con la propria coscienza, il proprio sentire, il proprio volere.

Accettare le scelte di tutti, non può tradursi nell’adeguarsi a tali scelte.

Chi diffida della narrazione ufficiale e rifiuta la discriminazione, non può chiamarsi fuori dal contrasto, adeguandosi alle imposizioni del sistema imperante. Non può, per fare un esempio, aderire al pass (in modo personale o chiedendolo agli altri) e sostenere di essere neutrale, perché, dando la propria adesione, ha già effettuato una scelta pratica di parte.

In questa situazione, è importante sottoporre ogni nostra decisione a un’attenta valutazione di coerenza con la nostra parte profonda, per aderire sempre ai dettami della coscienza e dello spirito e non dell’ego e dell’autoinganno.

Pensando e agendo coerentemente, possiamo sottrarci all’imposizione dello schieramento, e rimanere liberi dalla rabbia, dalla desolazione, dalla paura, dal giudizio.

Ora come ora, secondo me, è importante adottare uno stato d’animo interno e un atteggiamento esterno imperturbabili. E ciò è possibile soltanto se sappiamo veramente chi siamo, cosa vogliamo e cosa sta accadendo nel mondo a livello materico e a livello spirituale.

Una volta chiarite le forze in gioco, visibili e invisibili, possiamo davvero “chiamarci fuori” dallo schieramento, perché impariamo a lavorare su noi stessi, sull’evoluzione personale che il momento storico ci sta offrendo.

Forgiare la nostra anima e il nostro spirito è l’unica azione sensata, insieme a riconoscere le anime affini con cui condividere questo percorso evolutivo.

Pandemia: l’Italia ha offerto un esempio da seguire

Un’infinità di considerazioni potrebbero nascere dall’attuale situazione, ma sono certo che sia necessario mantenere la messa a fuoco su un campo ristretto.

di Flavio Gandini

Un’infinità di considerazioni potrebbero nascere dall’attuale situazione, ma sono certo che sia necessario mantenere la messa a fuoco su un campo ristretto. Ognuno deve occuparsi della propria specialità.
Partirò, pertanto, da un concetto estremamente lineare.
Nell’ambito della dermoriflessologia, il rapporto tra memoria cosciente e memoria inconscia è complementare e antagonista.
Si tratta di un equilibrio energetico fondamentale che fa capo a una delle bilance primarie dell’energia psichica degli esseri umani.
Partiamo con la descrizione sintetica di tali funzioni psichiche o, meglio, animiche.
La nostra definizione di memoria cosciente è: capacità di riportare alla mente volontariamente episodi o elementi facenti parti della nostra attuale esistenza. In altri termini, ciò rende possibile retrocedere lungo la linea temporale della vita, raccogliendo quanti più frammenti possibile, fino a ricostruire un ricordo più o meno dettagliato.
Si può immaginare la memoria cosciente come la facoltà di accedere e sfogliare il libro della vita personale, comprese le emozioni collegate a ogni immagine o sequenza di immagini. Tale libro, però, alla memoria cosciente appare consunto e composto da una gran parte di pagine sbiadite, quasi cancellate, tanto da risultare illeggibili. Più anni abbiamo trascorso su questa terra e più la percentuale di ricordi inaccessibili aumenta, come se la nostra memoria cosciente non potesse accogliere dati all’infinito. O meglio come se la memoria cosciente assomigliasse all’hard disk di un computer. 500 Megabyte, un Terabyte, due Terabyte? Finiscono in fretta. Per archiviare nuovi dati, occorre rimuoverne altrettanti…

E tutto ciò senza prendere in considerazione la possibilità del ritorno su questo pianeta. Anche nel caso in cui la reincarnazione fosse dimostrabile, coscientemente non ci ricordiamo nulla, a parte, forse, qualche “dejà vu” pressoché inspiegabile in termini razionali.
Definiamo, ora, la memoria inconscia. Si tratta della capacità involontaria, di accedere a tutti quei ricordi che appartengono alla pagine sbiadite. Questo fenomeno si realizza quando ricordiamo, senza pensarci, un numero di telefono, il nome di una persona, un episodio che credevamo dimenticati. Questo meccanismo si manifesta anche nei “voli” della fantasia tanto da portarci alla domanda: questa scena l’ho inventata o, su un livello temporale differente, l’ho già vissuta?
La memoria inconscia spiegherebbe, quindi, anche il mistero dei dejà vu.
Questa memoria, oltre a contenere anche sfumature di eventi che non sappiamo neppure di aver colto (in particolar modo quelle legate agli stati d’animo) è estremamente più ampia. Per voler utilizzare di nuovo una metafora informatica, potrebbe corrispondere a un’enorme biblioteca di DVD.

Sui dischi è stato organizzato il backup di tutto ciò che doveva essere rimosso dall’hard disk per creare lo spazio necessario per le nuove registrazioni.
Il rapporto dimensionale che, sempre metaforicamente, si può ipotizzare tra le due memorie è quello esistente tra la parte emersa di un icebeg e quella immersa.
La superficie dell’acqua rappresenta l’elemento che separa l’attenzione cosciente, da quella inconscia e, per poter accedere alle memorie immerse, occorre varcare questa soglia tuffandosi nel liquido elemento. Questo accade in modo naturale durante i sogni, ma può realizzarsi anche da svegli, se si abbandona l’attenzione di veglia. Per esempio, con una meditazione profonda o, come nel nostro caso, con un trattamento di riequilibrio energetico in stato di rilassamento totale.
La dermoriflessologia, infatti, permette di immergersi nell’inconscio senza forzature e, grazie alla definizione dei circuiti energetici, con una direzione precisa, cioè conoscendo l’argomento su cui focalizzarsi. È un’immersione guidata… Ma esistono altre forme, meno controllabili, di stimoli esterni che possono provocare il “tuffo”.
Bene, la nostra epoca, caratterizzata dalla stretta convivenza con strumenti informatici e mediatici, comporta grandi comodità, ma anche uno scarso utilizzo mirato della bilancia memoria cosciente-memoria inconscia e, come si sa, lo scarso allenamento atrofizza le facoltà.
Aggiungo un particolare non trascurabile: nell’archivio della memoria inconscia non sono archiviati soltanto i ricordi della nostra esistenza, ma anche quelli genetici… Pertanto ci sono elementi ereditati da familiari e ascendenti, dati provenienti dalle regole sociali, memorie etniche, tradizionali e storiche.

Vediamo ora di intrecciare queste facoltà con la situazione attuale. La conseguenza che la cosiddetta emergenza pandemica ha messo in luce è un disagio relativo alla capacità di ricordare che nel mondo certi eventi sono sempre accaduti e che l’umanità, a posteriori, ha sempre considerato le generazioni precedenti come incivili e sprovvedute.

L’esempio seguente dimostrerà che non è cambiato granché e che, quando l’angoscia si spegnerà, dimenticheremo quasi tutto, fino al punto da ritrovarci a pensare che non sia mai accaduto niente di simile.

Veniamo alla cronaca. E, mantenendo l’epicentro dell’epidemia italiana, spostiamoci nel tempo di quattro secoli.

1630 – Una terribile epidemia si scatenò nel Nord Italia tra il 1630 e il 1631, decimando la popolazione e infuriando con particolare virulenza nella città di Milano, allora tra le più popolose della regione.

2020 – La stessa zona è tra le più colpite, anche se non si può, per fortuna, parlare di popolazione decimata.

1630 – Il contagio sembra essere stato portato in Lombardia dalla discesa delle truppe tedesche al comando di Albrecht von Wallenstein, che penetrarono dalla Valtellina dirette a Mantova per porre sotto assedio la città.

2020 – Anche se non ci sono presenze mercenarie, il virus sembra essere ugualmente d’importazione. Le ipotesi relative alla provenienza sono molto disparate, ma dare la colpa a qualcuno sembra inevitabile.

1630 – In realtà, la forma endemica della peste risale all’autunno del 1629. Alessandro Tadino, allora membro del Tribunale di Sanità, presentò al governatore milanese, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, il rischio incombente sulla città chiedendo provvedimenti urgenti di prevenzione, ma il politico rispose che la discesa delle truppe era dovuta a esigenze belliche imprescindibili e che bisognava confidare nella Provvidenza.

Il famoso medico Lodovico Settala, che già aveva visto la precedente epidemia del 1576, il 20 ottobre 1629 informò il Tribunale di Sanità che la peste si stava diffondendo. Venne riferito tutto anche ad Ambrogio Spinola, che nel frattempo aveva sostituito don Gonzalo nella carica di governatore dello Stato, ma la risposta fu che “le preoccupazioni della guerra erano più pressanti”. La grida (il telegiornale di allora) che imponeva il cordone sanitario fu emanata il 29 novembre, quando ormai la peste era già entrata a Milano.

2020 – Da notizie ricavate da operatori del settore sanitario sembra che i primi casi di polmonite atipica risalgano all’ottobre del 2019 (strana coincidenza di date), ma, a differenza di ciò che accadde nel ‘600, le notizie in merito alle richieste indirizzate all’Istituto Superiore di Sanità non sono disponibili.

Inoltre, se quattro secoli fa ci sono volute cinque settimane per correre ai ripari, chiudendo le stalle quando i buoi erano già fuggiti, nel presente sono stati necessari quattro mesi e non c’è stata neppure la guerra a Mantova…

1630 – I cronisti dell’epoca si affannarono a citare il nome del soldato che, entrando a Milano con un fagotto di vesti comprate dai fanti tedeschi, contribuì a diffondervi il mortale contagio.

2020 – I cronisti attuali non hanno fatto niente di differente rispetto ai predecessori. L’unica differenza è che la ricerca del Numero Zero è finita in un nulla di fatto.

Sottolineo che, in effetti, sapere il nome del primo contagiato è di scarsa utilità, se non in termini di cronaca.

1630 – La prima vittima, un certo Pietro Antonio Lovato (secondo altre fonti Pier Paolo Locati) morì tre giorni dopo all’ospedale dove fu ricoverato. Sul suo corpo fu riscontrata la presenza di un bubbone sotto un’ascella, segno inconfondibile della malattia, così il Tribunale di Sanità ordinò di bruciare tutte le sue suppellettili e di internare al lazzaretto le persone che erano entrate in contatto con lui, anche se questo rallentò e non impedì la diffusione del morbo.

2020 – Autopsie sconsigliate, cremazione delle salme, “arresti domiciliari” della popolazione e creazione di un’onda di panico. Come se non bastasse, le dichiarazioni di numerosi specialisti e Premi Nobel per la medicina sono state etichettate come farneticazioni di negazionisti. Jean Luc Montagnier, Alessandro Tadino, Lodovico Settala sono così accomunati da un simile destino.

1630 – L’epidemia crebbe lentamente e ci furono casi sporadici di peste in città tra la fine del 1629 e i primi mesi del 1630, senza che questo allarmasse più di tanto le autorità milanesi o impedisse i festeggiamenti per il carnevale, mentre il popolo continuava a ignorare la realtà attribuendo i decessi a febbri malariche o altre malattie dai nomi meno spaventosi. Per ordine del Tribunale venivano costretti alla quarantena nel lazzaretto tutti i malati o le persone sospette.

2020 – Nei nostro secolo la differenza si è vista: anche i decessi dovuti a cause differenti sono stati etichettati come derivanti dalla pandemia. Altro che evitare di allarmare la popolazione!

1630 – Furono i casi di peste tra le famiglie aristocratiche più in vista di Milano a convincere la popolazione della realtà dell’epidemia, anche se il Tribunale di Sanità inizialmente parlò ancora di “febbri pestilenti” e “maligne” per non allarmare i cittadini, mentre le autorità politiche si mossero con estrema lentezza per cercare di assicurare alla città il necessario vettovagliamento in vista di una recrudescenza del morbo.

2020 – La popolazione soffre e prega per la salvezza di un politico colpito (forse) dal tremendo contagio. Si salverà senza conseguenze, forse perché asintomatico.

1630 – Dal mese di marzo la peste iniziò a mietere vittime in ogni angolo di Milano, rendendo di drammatica evidenza ciò che, fino a poco tempo prima, era stato negato o travisato con un linguaggio ambiguo: i malati si affollavano in numero sempre crescente al lazzaretto.

2020 – Mese di marzo? Che coincidenza! Comunque, a Milano, il maggior numero di decessi si conta nelle Residenze Assistite per Anziani.

1630 – A partire dal mese di maggio i casi di contagio crebbero notevolmente, complice il caldo che favoriva la diffusione del male, al punto che gli appestati non potevano essere più ospitati nel lazzaretto e si ipotizzò di creare un’area di raccolta dei malati fuori Porta Ticinese.

2020 – La conversione del Polo fieristico in centro di assistenza per contagiati è datata 31 marzo. Un record di velocità. Avrebbe potuto ospitare 200 pazienti. Per gestirlo è previsto l’impiego di 200 medici, 500 infermieri e altre 200 figure professionali. Ringraziando la buona sorte, poche decine di ospiti hanno usufruito della struttura, risultata, alla fine, inutile.

1630 – Nonostante le gride che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per andarsi a rifugiare nei loro possedimenti in campagna.

2020 – Questa volta non si può sfuggire alla legge, forse… Comunque è obbligatorio proteggersi.

1630 – La paura per il contagio che mieteva vittime sempre più numerose in città fece nascere nella moltitudine nuovi pregiudizi e iniziò così a diffondersi l’assurda credenza che alcuni uomini spargessero appositamente unguenti venefici per propagare la peste, personaggi immaginari noti col nome famigerato di untori. Tale diceria non era alimentata soltanto dalla superstizione e dall’ignoranza popolare, ma trovava conferma anche nelle teorie di molti “dotti” del tempo.

2020 – I soggetti positivi ai test, se sono asintomatici non hanno difese immunitarie invidiabili, bensì sono portatori occulti di epidemia. La responsabilità di ulteriori contagi è loro.

1630 – L’arrivo dell’estate e del caldo accrebbe ulteriormente la virulenza della peste e la situazione in città nei mesi di luglio e agosto 1630 divenne pressoché insostenibile: il numero di decessi giornalieri arrivò a 500 all’inizio dell’estate, per poi toccare i 1200-1500.

In totale, su un numero di abitanti della città stimato in circa 750.000 abitanti, l’epidemia provocò 140.000-165.000 decessi (secondo le stime dei più attendibili storici).

2020 – Il tipo di epidemia, ovviamente, è differente quindi il caldo che peggiorò la propagazione del morbo, oggi ha l’effetto opposto. In ogni caso il bilancio al 21 luglio 2020 su una popolazione di circa 1.400.000 abitanti è di 16.797 vittime.

Torniamo, finalmente, alla memoria inconscia per tentare di ricavare qualche conclusione. Preciso che le considerazioni esposte non hanno carattere medico, tutt’al più logico. Quindi, sulla base della fallibilità di ogni umano potrebbero non essere del tutto corrette. Comunque, se la memoria inconscia contiene frammenti ereditari del passato e i suoi contenuti possono emergere quando il controllo razionale viene meno, è presumibile che una martellante informazione catastrofista possa scavalcare la ragione attingendo elementi dall’inconscio.

Secondo Anne Ancelin Schützenberger, geniale psicoterapeuta recentemente scomparsa, la solidarietà familiare inconscia, quella etnica, nonché gli anniversari di eventi catastrofici provocano un innalzamento notevole della probabilità di ripetizione.

Il “mantra” basato sull’imminente pericolo in arrivo fa scatenare la paura atavica di morire.

Non importa se, guardandoci intorno, nulla è cambiato. Il mondo sembra ostile, pericoloso, e la gente che si incontra è una minaccia.

Manteniamo le distanze, non mostriamo il nostro volto, non usciamo di casa se non è indispensabile e chiamiamo tutto ciò “comportamento responsabile”.

Responsabile di cosa? Di esserci nutriti con alimenti poveri di vitamine (in modo particolare C e D), di avere assunto antifebbrili, antinfiammatori, antidolorifici, psicofarmaci a vagonate?

D’altronde quando si dice che la pecora passa la propria vita nel terrore di essere mangiata dal lupo, per finire sulla tavola del pastore, non è fantascienza. Ai posteri l’ardua sentenza.