Molti pensano che la cosiddetta “cancel culture” e la conseguente “riscrittura della storia” sia un fenomeno moderno, forse addirittura post moderno.
Molti, che vedono nel libro di George Orwell un testo profetico, pensano che l’autore abbia guardato in una sorta di sfera di cristallo anche quando ha assegnato al suo protagonista, Wiston Smith, il noioso lavoro di riscrivere la storia per promuovere la versione allineata al pensiero dominante del governo dell’Oceania.
Ma non è così.
La Storia è stata scritta e riscritta molte volte con l’intento di adeguare il pensiero della popolazione alle linee guida dominanti o per costruirsi privilegi e diritti, e quella che abbiamo imparato a scuola non fa eccezione.
Nel Medioevo, per esempio, si ravvisa uno dei periodi più attivi in tale operazione.
Scrive Paolo Preto: «Il Medioevo, com’è noto, è per eccellenza l’età dell’oro dei falsi; oltre alla celebre Donazione di Costantino, alle false Decretali pseudo-isidoriane, alle innumerevoli cronache, reliquie, agiografie, si staglia l’imponente mole dei falsi documenti confezionati, per lo più nei monasteri, per retrodatare, confermare o semplicemente inventare fondazioni, diritti di possesso di terre, privilegi fiscali, esenzioni giurisdizionali. Un convegno internazionale sui falsi medievali, organizzato nel 1986 a Monaco dalla società dei Monumenta Germaniae Historica, ha prodotto cinque imponenti volumi di relazioni; ovunque, in Italia e in Europa, la ricerca storica sull’età medievale si è posta nel passato, e si pone tutt’ora, come necessità preliminare l’individuazione e la separazione dei documenti falsi da quelli autentici».
E non si cada nell’errore di pensare che l’opera di ricerca citata, ossia quella di valutare preliminarmente i falsi e gli autentici, sia esente da vizi.
Interessante anche la valutazione di Giuseppe Palazzolo: «Se nel Medioevo la falsificazione aveva come scopo la riconferma della fiducia in un ordine riconosciuto, la funzione della falsificazione contemporanea consiste nel creare sfiducia e disordine, e gioca non sulla solidità di fronte allo scrutinio della filologia, ma sull’accumulazione: “è la quantità delle falsificazioni riconoscibili come tali che funziona come maschera, perché tende a rendere inattendibile ogni verità” [Umberto Eco, La falsificazione nel Medioevo]».
Quindi anche Umberto Eco era perfettamente consapevole delle falsificazioni storiche e di quelle odierne e della differenza tra le due.
Scrive ancora Palazzolo: «L’avvento dei mass media ha esasperato questa dinamica, come Eco aveva avuto modo di dimostrare nel famoso ‘esperimento Vaduz’, un’indagine sperimentale affidata nel 1974 all’Istituto Gemelli di Milano e realizzata insieme ad Aldo Grasso, in cui venivano analizzate le reazioni di una comunità di telespettatori di fronte a tre diversi testi a carattere documentario-giornalistico su un avvenimento ‘falso’ ma presentato come plausibile: gli scontri politico-religiosi – tra valdesi e anabattisti – accaduti a Vaduz, capitale del Liechtenstein. La veridicità del racconto è promossa anche dalla compresenza di filmati e foto, montati attraverso un sapiente uso di inquadrature, musiche, sottotitoli, ma in ultima analisi è resa possibile dalla mancanza di un controllo ‘inter-testuale’ da parte del destinatario dell’informazione: Eco richiama l’attenzione sulla necessità di una pedagogia che educhi a sottoporre qualunque messaggio a “una sorta di interrogatorio incrociato” e a leggere le immagini in maniera “critica e non magica”».
Non è ciò a cui stiamo assistendo in maniera scandalosamente evidente da anni? Eppure non è cosa nuova è, proprio come ho detto, scandalosamente evidente.