Pensate a un cacciatore che passa ore appostato per trovare, catturare e uccidere la propria preda con lo scopo di sfamare se stesso e la propria famiglia.
Pensate alle famiglie che allevano galline per le loro uova e, ogni tanto, tirano il collo a una di esse.
In questi atti c’è un contatto diretto con l’azione e le sue conseguenze, c’è compartecipazione emotiva.
E infatti, un vero cacciatore non fa strage di animali e un piccolo allevatore sacrifica la gallina più vecchia solo quando necessario. Con la consapevolezza che stanno uccidendo, che stanno togliendo la vita a una creatura.
Ora pensate agli allevamenti intensivi e ai mattatoi, pensate al distacco emotivo con cui gli animali vengono allevati e poi uccisi per mezzo di macchinari appositi.
In questo modo di operare si crea un filtro tra l’azione dell’uomo e il suo impatto sulla sua struttura psichica e sull’ambiente in generale e quasi nessuno si rende conto di ciò che sta facendo davvero. L’atto si spersonalizza, diventa meccanico, potenzialmente disumano.
Ora, io non sono contrario alla tecnica, tutt’altro, ma se la tecnica si sviluppa senza etica, senza rispetto, senza consapevolezza, la deriva è dietro l’angolo. E a nulla vale creare schiere di ambientalisti e animalisti e vegetariani e vegani… perché neanche queste persone capiscono veramente qual è il focus della questione. Si trasformano semplicemente in nuovi fanatici che si contrappongono a fanatici della “tecnologia da strage”.
E lo stesso discorso si applica alla guerra. Per quanto brutta sia l’idea di uno scontro corpo a corpo, resta il fatto che, nel ferire e uccidere, l’uomo ha coscienza di ciò che sta facendo.
Ma quando si pilotano aerei o si manovrano droni a distanza o si dirige qualsiasi altra diavoleria che sgancia bombe o proiettili su luoghi e persone, si perde il contatto emotivo e tutto diventa finzione.
Ecco, è questa la tecnologia che dovremmo ripensare: quella che fa perdere il contatto con se stessi e il proprio mondo.